"Ho saputo che c'era un vecchio."
"Quanto vecchio?"
"Era vecchio già da un po'. Questo vecchio si era stufato..."
"Sì, ma come si chiamava?"
"Lo chiamavano Sig. Sottovuoto.
Beh, il Signor Sottovuoto si era stufato di masticare
tabacco e un giorno, impastando nella sua sputacchiera,
divise quattro gemelli. Ognuno di loro tanto era diverso..."
"Ma non erano gemelli?"
"... tanto era diverso, quanto era uguale."
"Ma non vuol dire niente!"
"Lo so. Però è così."
ACQUA

Da mesi volevo una bicicletta.
Finalmente l’ho presa.
Non l’ho proprio comprata, ma tant’è.
Mi serviva davvero oggi, che non piove più.
Così per le 11 sono in piazza, dove c’è il bar coi tavolini,
che lei è sempre lì.
Tutta bianca.
Beve, parla e ride con uno con la barba tutto vestito di blu.
Ricco che c’ha il colletto e il cilindro. Ride anche lui.
Sulla tovaglia non mancano mai bottiglie di acqua fesca,
uva e sottobicchieri d’argento.
Gli amici vanno e vengono, chi con il cane, chi col bastone da passeggio.
Tutti quanti hanno il cilindro e una grande allegria.
Io mi fermo e aspetto. Metto giù il piede dal pedale:
arrivo a terra appena, devo inclinare la bicicletta.
Mi piace stare a guardarli: sembrano un quadro.
Prima di mezzogiorno lei si alza e s’incammina. Va a casa.
Lo so, la seguo sempre!
Però con la bici posso seguirla più da vicino: lei abita in campagna
e cammina piano vicino ai campi di orzo. Io riesco a pedalare veloce
fino alla ferrovia, che passa sopra.
E da lì non me la perdo un secondo. Tutta un pizzo bianco,
col cappellino fiorito e l’ombrellino bianco aperto che si passa
lanciandoselo da una mano all’altra e sembra di vedere una barchetta
che balla nel mare.
Poi lei scompare dietro la siepe.
Mi tuffo in un fosso, che il sole picchia, schizzo acqua
sulle ruote impolverate, poi corro a riportare la bici allo zio,
che se si accorge che gliel’ho presa mi urla.
TERRA

“Tra' la ruca 'n mes a l'èera
se gh'è nigul s'en serena
Volilena Volilena
Volilena Volilà”.
Il bello del cantarla era quando si andava per radici, la sera.
Partiva proprio tutto il gruppo dei cugini, coi piedi nudi
e la voce grossa da grandi.
Ogni -lena e -là ne estraevi una dal terreno: veniva un ritmo
di schiene e braccia sù e giù che sembrava ci eravamo messi d'accordo.
Io andavo anche da solo.
Mia mamma non veniva perchè convinta che ogni radice
era un rimpianto di cose vecchie e sepolte.
Non l'ho mai capita bene questa cosa: se era solo per il
sapore amaro di quando le mangiavi, o perchè a tirarle su
smuovevi tutta la terra, da quella secca sopra a quella bagnata sotto.
A me piaceva.
Tipo quando ne trovavo di lunghe, tutte storte che sembravano
spade bianche di mille guerre almeno.
I vecchi dicevano che ogni radice che tiri, sprofonda un albero in Cina.
Tu metti che vien su attaccato anche un samurai, pensavo io. E allora
combattevo agitando la mia sciabola splendente e giu' a urli e colpi.
Che i samurai non erano invincibili e i rimpianti sembravano
così leggeri da fischiare via al tempo delle campane di vespertina.
FUOCO

Camminava piano, al sapore d'estate.
Conosceva già tutto quello che vedeva:
"..granoturco, sì. Fossi, bene. Asfalto, via. Case, certo.
Caldo, dall'odore."
Però non perdeva occasione di seguire il proprio naso
tutte le sere, appena prima di sedersi a tavola e schioccare la lingua.
"Perchè il gusto prende orgoglio a dargli aria."
Più o meno la pensava così.
Aveva sempre con sé, rosso come il suo naso, un fiore nell'occhiello.
Ogni tanto se lo passava di mano in mano come una matita colorata
e mentre camminava disegnava piccoli cerchi, grandi linee e viceversa.
A vederlo, sembrava in urbietorbi a benedire tutt'intorno.
A sentirlo, era tutto un racconto di tanti anni fa:
che per dormire sereni bisognava andar per campi
e lasciar liberi i pensieri.
Sarà stato l'affetto alla sua terra o il piacere del promesso
sonno profondo, quando tornava a casa la sera
aveva sempre stampato un bel sorriso largo sotto i baffi.
Come di chi vede accendersi le prime lucciole nei fossi e si
immagina di confessarsi a loro.
"Quanto vecchio?"
"Era vecchio già da un po'. Questo vecchio si era stufato..."
"Sì, ma come si chiamava?"
"Lo chiamavano Sig. Sottovuoto.
Beh, il Signor Sottovuoto si era stufato di masticare
tabacco e un giorno, impastando nella sua sputacchiera,
divise quattro gemelli. Ognuno di loro tanto era diverso..."
"Ma non erano gemelli?"
"... tanto era diverso, quanto era uguale."
"Ma non vuol dire niente!"
"Lo so. Però è così."
ACQUA
Da mesi volevo una bicicletta.
Finalmente l’ho presa.
Non l’ho proprio comprata, ma tant’è.
Mi serviva davvero oggi, che non piove più.
Così per le 11 sono in piazza, dove c’è il bar coi tavolini,
che lei è sempre lì.
Tutta bianca.
Beve, parla e ride con uno con la barba tutto vestito di blu.
Ricco che c’ha il colletto e il cilindro. Ride anche lui.
Sulla tovaglia non mancano mai bottiglie di acqua fesca,
uva e sottobicchieri d’argento.
Gli amici vanno e vengono, chi con il cane, chi col bastone da passeggio.
Tutti quanti hanno il cilindro e una grande allegria.
Io mi fermo e aspetto. Metto giù il piede dal pedale:
arrivo a terra appena, devo inclinare la bicicletta.
Mi piace stare a guardarli: sembrano un quadro.
Prima di mezzogiorno lei si alza e s’incammina. Va a casa.
Lo so, la seguo sempre!
Però con la bici posso seguirla più da vicino: lei abita in campagna
e cammina piano vicino ai campi di orzo. Io riesco a pedalare veloce
fino alla ferrovia, che passa sopra.
E da lì non me la perdo un secondo. Tutta un pizzo bianco,
col cappellino fiorito e l’ombrellino bianco aperto che si passa
lanciandoselo da una mano all’altra e sembra di vedere una barchetta
che balla nel mare.
Poi lei scompare dietro la siepe.
Mi tuffo in un fosso, che il sole picchia, schizzo acqua
sulle ruote impolverate, poi corro a riportare la bici allo zio,
che se si accorge che gliel’ho presa mi urla.
TERRA
“Tra' la ruca 'n mes a l'èera
se gh'è nigul s'en serena
Volilena Volilena
Volilena Volilà”.
Il bello del cantarla era quando si andava per radici, la sera.
Partiva proprio tutto il gruppo dei cugini, coi piedi nudi
e la voce grossa da grandi.
Ogni -lena e -là ne estraevi una dal terreno: veniva un ritmo
di schiene e braccia sù e giù che sembrava ci eravamo messi d'accordo.
Io andavo anche da solo.
Mia mamma non veniva perchè convinta che ogni radice
era un rimpianto di cose vecchie e sepolte.
Non l'ho mai capita bene questa cosa: se era solo per il
sapore amaro di quando le mangiavi, o perchè a tirarle su
smuovevi tutta la terra, da quella secca sopra a quella bagnata sotto.
A me piaceva.
Tipo quando ne trovavo di lunghe, tutte storte che sembravano
spade bianche di mille guerre almeno.
I vecchi dicevano che ogni radice che tiri, sprofonda un albero in Cina.
Tu metti che vien su attaccato anche un samurai, pensavo io. E allora
combattevo agitando la mia sciabola splendente e giu' a urli e colpi.
Che i samurai non erano invincibili e i rimpianti sembravano
così leggeri da fischiare via al tempo delle campane di vespertina.
FUOCO

Camminava piano, al sapore d'estate.
Conosceva già tutto quello che vedeva:
"..granoturco, sì. Fossi, bene. Asfalto, via. Case, certo.
Caldo, dall'odore."
Però non perdeva occasione di seguire il proprio naso
tutte le sere, appena prima di sedersi a tavola e schioccare la lingua.
"Perchè il gusto prende orgoglio a dargli aria."
Più o meno la pensava così.
Aveva sempre con sé, rosso come il suo naso, un fiore nell'occhiello.
Ogni tanto se lo passava di mano in mano come una matita colorata
e mentre camminava disegnava piccoli cerchi, grandi linee e viceversa.
A vederlo, sembrava in urbietorbi a benedire tutt'intorno.
A sentirlo, era tutto un racconto di tanti anni fa:
che per dormire sereni bisognava andar per campi
e lasciar liberi i pensieri.
Sarà stato l'affetto alla sua terra o il piacere del promesso
sonno profondo, quando tornava a casa la sera
aveva sempre stampato un bel sorriso largo sotto i baffi.
Come di chi vede accendersi le prime lucciole nei fossi e si
immagina di confessarsi a loro.
nicola.cazzalini(at)gmail.com